a proposito di...
Il senso del luogo.
Recensione di Roberto Cipriani
Franco Ferrarotti, Il senso del luogo, con pastelli, tempere ed olii di
Giovanni Ferrarotti, Armando, Roma, 2009, pp. 96.
Ho avuto modo di presentare questo libro a Roma in piazza del Popolo,
venerdì 3 luglio 2009, in un afoso pomeriggio ed all’interno di una kermesse
libraria e di un grande gazebo, che faceva ‘luogo’ in una sorta di gazebo
poli, fra le tante che costellano Roma d’estate.
Il gazebo della presentazione era un luogo fuori dell’ordinario in una
piazza straordinaria, già abituata in passato a fiere, giochi, spettacoli,
carnevalate, corse dei Bárberi. Qui era la via Flaminia già dal 223 avanti
Cristo. Qui è ora un obelisco monolitico e granitico, alto 25 metri e
proveniente, di luogo in luogo a dar ‘senso al luogo’, da un altro posto
(420 anni fa, per ordine di papa Sisto V), dal Circo Massimo, dove era
giunto da Heliopolis, sua originaria collocazione per volontà di Ramses II.
Anche l’accesso alla piazza ha subíto mutamenti: per 1500 anni era stata una
delle principali vie d’ingresso a Roma ed era affiancata da due torri fino
al 1877, allorquando vennero sostituite con due fornici fiancheggianti la
porta. Subito dopo quest’ultima, ha inizio quello che i romani chiamano Muro
Torto, ma che in realtà è quanto resta delle Mura Aureliane dell’anno 271.
Ma il senso del luogo è dato soprattutto dal nome stesso della piazza, detta
del Popolo perché fatta costruire a spese del popolo romano (all’epoca delle
crociate, si dice). Il carattere non privatistico è sottolineato pure dalla
presenza di una fontana pubblica, voluta dal papa Gregorio XIII.
La piazza è il punto di partenza del famoso tridente di strade, che si deve
all’azione urbanistica del pontefice Sisto V: la via Leonina (così
denominata, dal nome di Leone X) del 1517-19 ed ora detta di Ripetta; via
Clementina, adesso nota come del Babuino (1525); la via del Corso.
Da piazza del Popolo entrò in Roma Cristina di Svezia (nel 1655), ma pure
Goethe, come ricorda lo stesso Ferrarotti (pag. 57). Lavori importanti sulla
piazza vennero progettati dall’architetto Valadier nel 1811: la statua di
Nettuno fra tritoni e quella di Roma fra Aniene e Tevere.
Nella chiesa di Santa Maria del Popolo c’è una cappella del Santo Sepolcro
che risale al 1099. Il tempio peraltro insiste su quello che era il mausoleo
dei Domizi, luogo di sepoltura dell’imperatore Nerone. La chiesa è notevole
per la presenza di numerose opere d’arte che l’adornano: per l’architettura
Bramante, Raffaello (che predispose pure dei disegni per la pittura),
Bernini e Sangallo; per la pittura Mino da Fiesole, Maratta, Cavallini
(Francesco), Pinturicchio, Caravaggio, Sebastiano del Piombo; per la
scultura Sansovino.
Fronteggiano e chiudono la piazza due chiese gemelle, entrambe progettate
dal Fontana: quella di Montesanto nel 1662 e quella di Santa Maria dei
Miracoli nel 1675 (con intervento del Bernini e produzione pittorica del
Maratta).
Caratterizzano la piazza e le aggiungono senso anche due famosi Caffè: il
Rosati ed il Canova.
Non sembri fuori luogo tutta questa lunga introduzione. Il fatto è che il
testo di Ferrarotti ha proprio questo carattere: voler trovare un senso al
luogo, che dà significato anche a ciò che nel luogo si colloca. Per esempio
la stessa scelta della copertina del libro con la rappresentazione di un
luogo in forma pittorica dà un valore all’insieme dei tredici capitoli-saggi
e dell’appendice dedicata ad Adriano Olivetti. Ma soprattutto diventa un
omaggio (dovuto? Tardivo?) a Giovanni Ferrarotti, fratello maggiore di
Franco ed artista a tutto campo, dalla musica alla pittura. Di quest’ultima
in particolare è copiosa testimonianza nella seconda parte del testo,
intitolata opportunamente «Il paesaggio», con 21 riproduzioni tratte
dall’opera di Giovanni Ferarrotti, che si cimenta tra pastelli, matite,
tempere, olii.
La copertina è un ingrandimento di una tempera su contè, scelta fra le varie
opere forse per i suoi colori più vivaci (presumibilmente sciolti in olio di
noce od albume d’uovo od anche latte). Il paesaggio rappresentato proviene
dalle colline piemontesi, che sono i luoghi – veri e propri τόποι – di
contatto con la realtà, più o meno onirica e comunque priva di presenze
umane, ossessivamente riproposta più e più volte, quasi a fare il paio con
la nota Montagne Sainte Victoire, alta appena 1100 metri, che non ha certo
il fascino del biblico monte Ararat in Armenia (ma oggi in Turchia) o del
gigante italiano, il Monte Bianco, eppure ha affascinato a lungo un autore
come Paul Cézanne, il qaule in quella montagna vedeva ciò che dava senso al
suo luogo (Aix-en-Provence).
Quasi emulo di Sisley, Pissarro, Manet, Granet (anche questi assai legato a
Aix-en-Provence), Giovanni Ferrarotti ci si presenta sotto molti aspetti
come il Cézanne del Piemonte, delle valli e delle colline piemontesi. Più
che un impressionista alla maniera di Monet, Giovanni sembra caratterizzarsi
come un post impressionista, appunto come Cézanne stesso.
Dalla sua ricerca pittorica traspare un intenso senso di inquietudine, di
insoddisfazione. La solitudine sembra una scelta obbligata. L’essere
solitario confina con l’eremitismo (in questo c’è una convergenza singolare
con il fratello minore, Franco, che ha sperimentato nel Brasile amazzonico
le dinamiche dell’isolamento e del badare a se stessi senza i supporti della
modernità).
Sotto il pennello di Giovanni Ferrarotti, le forme divengono quasi solo
schemi geometrici, che vengono riempiti di colori tenui, ‘soavi’, quasi
slavati, assai temperati, eccessivamente annacquati. Ma il risultato è
stupefacente: dalla trama e dall’ordito delle tele tracima tanta luce,
quella stessa che un’altra scrittura con la luce, la fotografia, riesce a
sprigionare. E qui pure c’è una sintonia tra Giovanni e Franco, giacché
quest’ultimo non ha disdegnato di misurarsi con lo strumento fotografico,
del che è prova specialmente su varie copertine della rivista da lui
fondata, La Critica Sociologica, nonché in documenti iconografici che
accompagnano altri volumi di saggistica sociologica o in produzioni dedicate
monograficamente al tema dell’immagine e della fotografia.
A parte l’affinità con Cézanne, va però detto che in Giovanni Ferrarotti non
c’è solo la luce o il colore degli impressionisti o, meglio, dei post
impressionisti. C’è in lui qualcosa che lo avvicina altresì a Manet. C’è la
sua insistenza sul paesaggio en plein air, ma soprattutto, come si è già
rilevato, non si scorge alcuna presenza umana. La si intuisce solo. I radi
casolari sparsi sulle colline fanno immaginare che siano abitati, ma
potrebbero anche non esserlo, perché abbandonati da tempo, ruderi-testimoni
di una civiltà contadina scomparsa, quella stessa di cui anche Franco ha
scritto più volte in riferimento alla sua zona vercellese di origine.
La pittura di Giovanni è piuttosto una costruzione mentale, ben lontana dal
realismo figurativo. Molte forme sono cubiche ma non si tratta di una
concessione al cubismo (ormai obsoleto come corrente artistica). La modalità
dominante è però quella rettangolare, dei filari come dei solchi, delle
isometrie delle colline come delle fessure-fenditure che dicotomizzano il
terreno, lo spaccano, lo squarciano a forza di pennellate decise, quasi
tagli intenzionali per voler incidere la tela. A questo riguardo c’è un
particolare nella stessa copertina del volume: il logo della casa editrice
Armando sovrapposto alla tempera su contè assume la parvenza di un
taglierino bi-lama cha va ad innestarsi sull’immagine.
Gli sfondi sono compattamente grigi, con poche tracce e tacche di colore.
Alcuni punti sembrerebbero persino lasciati volutamente liberi dal colore,
da qualsiasi colore. Ecco allora che l’insieme risulta come un succedersi di
macchie, una litania, un rosario inanellato di macchie congiunte fra loro.
Paiono tante altane stratificate a schiera, quasi quinte, siepi separatrici
tra la realtà ed un infinito para-leopardiano. Vi è al di là di esse un
mondo immaginario che aumentando la profondità dello spazio permette
ulteriori riflessioni, ben oltre il limite della tela.
Negli undici pastelli, negli otto olii, nelle due tempere e nell’unica
matita si intravvedono di continuo alberi verdi, pali e vele in bianco,
nembi azzurri filiformi ed appena rabbuffati, tagli orizzontali di tetti
rossi o di fiori, che si ergono verso il cielo quasi come le
emergenze-evidenze di una ricerca sociologica, in una
tavola-tabella-tavolozza all’inizio sempre piana o appena increspata da
qualche grumo di colore ma che poi trasposta petit à petit, gradualmente e
sapientemente, sulla tela diventa prospettica ed è attraversata da andamenti
orizzontali, da terreni arati, da onde/solchi, che si rincorrono fra loro e
vengono incontro a chi guarda, quasi cipressetti carducciani, cui anche
Giovanni Ferrarotti par dire: «oh di cuore con voi mi resterei!». Non a caso
la firma dell’autore va ad adagiarsi proprio in un solco (‘hic manebimus
optime’).
Ecco dunque spiegato in Giovanni ed attraverso Giovanni l’arcano del luogo,
ma soprattutto un collegamento fondamentale, dall’andamento triangolare e
bi-fronte, che vede collocarsi insieme Giovanni e Franco ma anche Franco e
Cesare (Pavese) per poi tornare a Giovanni. Insomma c’è un legame quasi
carsico fra i tre, dato dalla narrazione artistica (sociologica, letteraria
o pittorica che sia) della campagna come mito, come luogo-stagione (ma anche
stazione come stasi), connesso intimamente all’assenza di potere
dell’intellettuale (sociologo, letterato, pittore) di fronte all’esistenza,
alla società. Da ciò nasce la riflessione sul senso del luogo in cui si
vive, in cui ci si trova, insomma sul senso dell’esistenza (il dasein
heideggeriano), dell’esserci qui ed ora (come non citare i pavesiani Paesi
tuoi, La luna e i falò, Il mestiere di vivere?).
Si affaccia in definitiva il mistero delle origini, la questione della
a-temporalità (non a caso l’opera preferita di Franco Ferrarotti sarebbe Il
ricordo e la temporalità, con il paradosso de ‘la morte che fa vivere’).
Ciò detto, si comprende bene come la sintesi tra forma e colore in Giovanni
divenga sinergia tra Giovanni e Franco. Questo conferma in pieno il valore
oblativo del volume di Franco Ferrarotti che vuole rendere omaggio al suo
germano anziano.
Nondimeno la pubblicazione dei saggi di Franco e delle opere di Giovanni è
pure un’occasione per parlare della crisi odierna, della nave che affonda
mentre l’orchestrina sul ponte continua a suonare (pp. 21-23),
dell’anti-consumismo, per concludere che “le crisi fanno bene al
capitalismo” (pag. 17). Franco Ferrarotti, per di più, aveva in qualche modo
previsto più volte la crisi attuale, attraverso gli editoriali de La Critica
Sociologica, come giustamente rivendica (pag. 21).
I vari saggi del volume declinano il tema del senso del luogo in varie
direzioni: dal luogo della comunità territoriale (pag. 25) all’identità
dinamica (pag. 27) ed alla dimenticanza odierna del genius loci (pag. 28)
che occorre riscoprire (anche con la mediazione artistica di un Giovanni
Ferrarotti).
Tra le varie perle, abituali in un testo ferrarottiano, segnalerei le belle
pagine dedicate al bosco che vive e respira (pp. 45-48), ma pure quanto
scritto in precedenza (pag. 31) a proposito di Tacito e del suo (ma Ettore
Paratore l’ha attribuito a Velleio Patercolo) De Germania, a proposito dei
costumi territorial-comunitari dei germani.
Il discorso prosegue con l’indicazione del genius loci come un dio autoctono
(pag. 33), di cui la natura è sede (pag. 62). Il carattere ammaliatore del
paesaggio (di cui il pittore Giovanni è testimone primario) trova poi ampi
riscontri in altre pagine (49-52).
Infine quando Franco, memore di Simmel (pag. 50), parla dei tetti di Roma
(pp. 53-63) sembra quasi immedesimarsi nel fratello Giovanni e guardare con
i suoi occhi di artista ad un paesaggio che diventa simbiosi finalmente
realizzata, una specie di regressus ad uterum, che ha come tramite altane,
terrazzine e verande per Franco, ripiani, isometrie ed andamenti altimetrici
orizzontali per Giovanni. Se poi quest’ultimo guarda alle sommità delle
colline Franco, in qualche modo più ‘prosaico’, volge lo sguardo alle
mammelle turgide di cupole di chiese romane (pag. 54).
Luogo fra i luoghi e per nulla fuori luogo, giunge la clausola finale:
riscoprire la terra dopo essere stati sulla luna (pp. 65-71). Forse è in
questo il senso profondo del testo due volte ferrarottiano: ri-contemplare
sociologicamente ed artisticamente) il luogo che ci dà un senso.
Roberto Cipriani
P.S.: il commento al testo è parco di osservazioni sui contributi di Franco
quanto ricco sull’apporto artistico di Giovanni. Ancora una volta vuol
essere questo un elemento di consonanza più che sociologica con gli intenti
dell’autore del volume.