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Arta Musaraj, Editore dell'Academicus


In piedi, davanti al Parlamento italiano, guardando con la coda dell’occhio i tacchi delle scarpe buone da grandi occasioni, incredibilmente ancora indossabili, una gioia improvvisa smorzava tutta la stanchezza di quella giornata, che era stata tutto tranne che normale. Concludevo così, nell’anormalità, la mia “giornata romana della Comunicazione”.

Le riprese per il serial “Universal Diluvium” si svolgevano in quelle ore, davanti allo Sheraton di Roma, avendo come protagonista centoventisette millimetri di pioggia caduta in sole tre ore. Un record. Non capitava da una vita. A un chilometro da lì, nella sala chic della Confindustria Italiana, dedicata ad Andrea Pininfarina – proprio lui, uno dei grandi designer italiani della Ferrari, morto a soli 51 anni mentre girava su una “Vespa”, il gioiello a due ruote del dopoguerra italiano – il “mago” della comunicazione per il quale eravamo lì riuniti, Zygmunt Bauman, per un momento non era più sotto i riflettori. Il regista, “Dio”, aveva affidato il suo ruolo da protagonista a qualcun altro, alla pioggia.

I partecipanti all’International Communication Summit sono arrivati con almeno due ore di ritardo. Il quartiere di Roma Eur, voluto e costruito nell’epoca mussoliniana per celebrare la “marcia su Roma”, ora, sotto l’acqua, assomigliava a Venezia. Gli ospiti di Franco Pomilio, presidente di Pomilio Blumm, organizzatore della giornata, arrivavano tutti bagnati, inzuppati fino alle ossa, e di comunicazione non parlavano più. Ordine del giorno, un solo argomento, un altro: la pioggia. Aveva vinto lei. Era lei la regina di Roma.

Cellulari e taxi non si usavano nel suo regno. Non si usava niente. Blackout. Ho cercato di usare la moneta locale, quella che circola a Roma quando è sotto il potere della pioggia: la Metro. Ma neanche quella era più riconosciuta né scambiata. Là, alla Garbatella, l’avevano proclamata fuorilegge. Non funzionava. Era scambiata solo a “Piramide”, a tre miglia da lì, dove i taxi erano diventati un bene di contrabbandando, non li trovavi da nessun parte, e dove dopo averci sbattuto fuori dalla Metro senza fornirci spiegazioni ci segnalavano con un dito l’unico modo per proseguire: a piedi!

I tacchi alti non mi hanno tradita: giunta davanti al tanto sognato edificio berniniano del Parlamento, nome di cui non ho mai compreso le origini, non mi sentivo a disagio. “Montecitorio” si trovava lì, di fronte al curioso obelisco egiziano risalente a cinque secoli prima di Cristo, portato a Roma da Augusto intorno agli anni zero e convertito dalla genialità romana in un oggetto multifunzionale: orologio solare e calendario perpetuo allo stesso tempo.

Franco Ferrarotti era lì, al secondo piano, fra la “Sala della Lupa” e la “Sala Gialla”, dove l’arazzo d’oro della stanza, assieme all’arredamento monumentale in prezioso metallo, non era cambiato negli anni. Il nome invece sì, gliene avevano dato un altro.

Se ne stava lì, quasi a fare da collegamento tra due epoche: quella del lontano passato – l’Italia del ’46, che tratteneva il fiato verso quella sala, dove la lupa di bronzo allattava non più i gemelli mitologici Romolo e Remo, ma il sogno di una “cosa nuova”, che nasceva in quel 2 di luglio – e il presente – la ex “Sala Gialla” ribattezzata ormai “Aldo Moro”, a trent’anni dalla sua uccisione, avvenuta non lontano da lì, come se per adempierla avesse aspettato la Seconda Repubblica, in veste di Giovanni il Battista.

Ferrarotti era lì, sulle scale berniniane, accanto alle statue di marmo di color oro che avevano realmente fatto l’Italia, un secolo e mezzo fa. In mano L’empatia creatrice, il libro che stava per presentare, proprio lì, nel tempio italiano della Repubblica.

Incontravo così Ferrarotti, il più grande sociologo italiano, uno degli italiani più famosi nel mondo. La pioggia, come nella “Canzone del Perdono”, cancellava le mie scuse per il ritardo, che si sarebbero disperse con l’echeggiare della sua risata in quel corridoio di finestre, che solo la fantasia italiana osa chiamare “transatlantico”, per la sua forma e l’illuminazione plafoniera del soffitto; e in cambio del mio mormorio a proposito della pioggia, dal suo “portafoglio d’oro filosofico” è venuto fuori: «Pioggia?!… No professoressa, no… erano solo due gocce. Sono i media… i media, loro gonfiano ogni cosa, perché mai ci ha creduto?». Ho sorriso, guadagnandomi una “moneta dorata ferrarottiana”: sociologia della comunicazione.

Franco Ferrarotti, questo gigante della cultura italiana, ancora scrive. Infinitamente scrive. La penna, la sua compagna di vita, è il suo bastone del pensiero. Lui scriverà sempre, fino alla fine, anche quando il corpo sarà così ostinato da non obbedire alla mente.

Tremava, mentre menzionava il premio Nobel André Gide, che morente ancora scriveva e scriveva sopra a un pezzo di carta; ma diversamente da lui – come il conflitto tra il vecchio e il nuovo, la teoria empirica e la vita, il passato e il presente, rimane duplice, proprio come quella piccola differenza fra l’amore e sentimenti – questo dualismo in perfetta relazione tra il suo sé e non-sé, dove il sé nascosto nell’individuo cerca di non rinchiudersi ma vuole dialogare, venire fuori, comunicare, nel lavoro di Ferrarotti è davvero rabbrividente.

l’Homo Ferrarottiano conversa, comunica. Non può farne a meno. Lui da solo non può salvare se stesso, e il suo grido rivela, al nudo, gli orientamenti profondi della società globale.

Dopo tutto, la comunicazione a Roma era diventata la parola chiave della giornata. Ferrarotti e Bauman. Da Bauman a Ferrarotti. Forse, nei miei pensieri, questa successione si era presentata al contrario. È stata una provocazione, questa combinazione? Ho passato molto tempo a pensarci.

La mia mente non sorvolava più sui tacchi alti, mentre attraversavo a piedi quel triangolo delle Bermuda romano, proprio lì, alle spalle del casa editrice Siares, che ospitava «La Critica Sociologica» di Ferrarotti. Stranamente percorrevo quella strada che si incrocia con via Caetani, dove 33 anni fa (l’età di Cristo) fu trovato assassinato Aldo Moro, al quale, questa volta non stranamente, era stata intitolata la “Sala Gialla” del Parlamento, dove solo poche ore prima ero seduta. Che bizzarra croce biblica, quella immaginaria tracciata tra piazza del Gesù, sede storica dei democristiani italiani, via delle Botteghe Oscure, a lungo sede dell’ex partito comunista, piazza Montecitorio e quella non casuale via Caetani, dove il cadavere del presidente dei democristiani fu lasciato dalle Brigate Rosse!

La croce, Gesù, l’età di Cristo: tutto proveniente dalla sacra Gerusalemme. Sorprendentemente, la mattina di quel giorno è stata invasa non solo dalla pioggia ma anche da lui, l’ebreo polacco, Zygmunt Bauman, anche lui proveniente da Gerusalemme.

Come se questo non fosse abbastanza, anche se il suono dei tacchi alti sui bilineari sanpietrini romani si era inaridito, non per la stanchezza, ma per il groviglio di pensieri, i miei piedi camminavano da sé, come guidati da un regista nascosto dentro di me, conducendomi verso le Botteghe Oscure, la strada dove l’emblema della “falce e martello” non esiste più; ma stranamente oggi, nel mio “Mundus Day” della comunicazione, mi hanno portato via, lontano, verso l’embrione di quello strano triangolo, lì nella Varsavia di mezzo secolo fa, dove in quel vulcano di sociologia, presso la cattedra di un marxista per convinzione, Adam Schaff, ribollivano proprio loro, Bauman e Ferrarotti.

Il triangolo si richiudeva di nuovo, e questa volta in modo diverso dal precedente, quello dei democristiani; questo era capovolto, col vertice in basso, il triangolo del comunismo.

Non mi sentivo più i piedi. Non pensavo neanche più ai tacchi alti. I due triangoli si sovrapponevano generando la “Stella di Davide” e ritornavo a quell’infinità di pensieri “ferrarottiani”, dove l’uomo e il non uomo, proprio come il semitismo e l’antisemitismo, a differenza di Cristo e l’Anti Cristo, s’intrecciano, durante e dopo uno scontro di titani, per collegarsi in un patto di silenzio le cui radici non sono mai venute allo scoperto.

Un’infinità di pensieri, che sembravano voler nutrire continuamente l’idea che non a caso la casa editrice Siares era stata ospitata lì, da Maria Immacolata, a casa sua, non nella lontana Gerusalemme, ma proprio lì, nel centro di Roma, in quel triangolo epocale tra partiti, nella casa di un’altra Immacolata, Immacolata Macioti, la sociologa brillante della “Sapienza”, dove è nata «La Critica» di Ferrarotti, che non a caso fu chiamata «sociologica».

È stata una provocazione, questa combinazione? Stavolta non ho pensato più di tanto! Il dolce sorriso di Maria Immacolata, simile a quello dell’altra italiana, la “Gioconda”, cancellava proprio come la pioggia apocalittica di Roma, in quella giornata straordinaria di comunicazione, la mia sensazione di non colpevolezza, dimostrando che il detto romano “la classe non è acqua” non era solo un modo di dire.

I miei piedi stanchi non obbedivano più, non volevano lasciare quel bi-triangolo della storia al di là dell’Adriatico, allontanarmi dalla persona che ha scritto l’epoca sociologica nel modo più strano possibile, solo con la penna, quando la parola incideva dolorosamente sulla carta.

Stavo lasciando un mondo, e sorprendentemente mi stavo avvicinando a un altro, sempre a piedi, lontano, e al suo interno, lì a due passi, molto vicino, come se fosse un prolungamento “amebiano” del precedente, proprio lì in via del Plebiscito, presso il berlusconiano Palazzo Grazioli.

Un altro triangolo? Continuavo a camminare, stanca. La mia mente continuava tuttavia a non sentire la fatica. I tacchi? Chi ci pensava più!

Durante la serata, poche ore dopo, lasciando la “Sala Gialla” – che per me, a differenza di Gianfranco Fini che l’ha chiamata “Sala Moro”, sarà sempre legata al nome di Ferrarotti – Paolo Mieli, saggista e famoso ex-direttore del Corriere della Sera e della Stampa, si rivolgeva platealmente al maestro della penna sociologica: «È un piacere ascoltarti, mio amico Ferrarotti, il gigante di due epoche».

Paolo Mieli – proprio lui, che era stato attaccato da Berlusconi, ironia del momento, lì nella mia Albania, lontano, diversi anni fa, quando gli chiedeva di cambiare mestiere – stava cercando di ricordare al suo compagno di trincea antiberlusconiano che quello strano bi-triangolo della sua prima epoca stava cambiando forma, stava crescendo, e il suo tempo infinitamente inesauribile aveva ancora da incidere con la penna anche in quest’epoca. In quest’altra epoca.

Non mi sono sorpresa. È stata sociologia della comunicazione.

Ero a Roma. Ero con Bauman e Ferrarotti.

Non era una provocazione quella combinazione d’incontri. Sono partita per Roma per incontrare il primo, per fargli delle domande. L’ho fatto. E poi incontrando entrambi ho imparato quello che davvero non sapevo.

Arta Musaraj
 

 

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